1000 anni, dalla caduta dell’Impero Romano al Rinascimento: il Medioevo, secoli bui. Poco accade in agricoltura dal punto di vista del seme, mentre il molino, da semplice macchina per trasformare il frumento, diviene simbolo di potere. L’attività molitoria, sottoposta a continui tributi, avviene sotto lo stretto controllo dell’autorità statale e della Chiesa, ben lontana dall’essere gestita da libera iniziativa. Ma qualcosa sta cambiando. Il viaggio dell’argonauta si sposta dai campi a dentro le mura delle fortezze e dei palazzi, entrando a pieno titolo nel Rinascimento. Rimini, Urbino ed il loro entroterra sono teatro di guerre, di avvenimenti drammatici, di tradimenti, di grande arte. Sono i territori delle famiglie nobili Montefeltro e Malatesta. Un’aquila, segno imperiale che dalla Roma antica ha attraversato le epoche, distingue i Montefeltro; un elefante, simbolo di sapienza e comando, i Malatesta. “Allo Aliphante el cor l’Aquila morse” scrive, a proposito della battaglia del Cesano, Giovanni Santi, rifacendosi ai simboli dei rispettivi casati. L’uno viene chiamato il “il conte” e l’altro “il signore”, rispettivamente Federico da Montefeltro, conte di Urbino e Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, entrambi dipinti dal grande artista rinascimentale Piero della Francesca. Sono rappresentati ambedue di profilo: Sigismondo su sfondo nero, labbra sottili, sguardo sprezzante; il conte di Urbino più colorato, con berretto e veste rossa a spiccare su un luminoso paesaggio, ritratto nel suo profilo sinistro, per nascondere il destro, deturpato da una lancia durante un duello. In comune ai due nobili, oltre all’artista dei loro ritratti, Piero della Francesca, l’essere entrambi figli naturali, ma legittimati solo in un secondo tempo, e l’essere legati da intricate parentele e da odio reciproco. Nel 1422, anno di nascita di Federico, Urbino è ancora contea (diverrà ducato in seguito), comandata da Guido Antonio da Montefeltro, il padre, che lo riconoscerà solo più tardi, con parere favorevole del Papa. La casata, legata alla Chiesa, ha il controllo in parte di Umbria, Marche e Romagna. Anche la signoria dei Malatesta è legata alla Chiesa con vincoli di vassallaggio e controlla Cesena, con Domenico Novello, fratello di Sigismondo, Rimini, alcuni castelli nei territori dei Montefeltro e Fano, nelle Marche, sotto l’egida dello stesso Sigismondo. Ed è proprio in Rimini che Sigismondo ha la sua residenza, una fortezza più che un palazzo, caratterizzata dal ponte levatoio, dalle mura a doppia cinta, da un’aria cupa e minacciosa, a cui dà il nome di Castello Sismondo, abbreviazione di Sigismondo. Sigismondo, discende da Giangiotto Malatesta, colpevole della uccisione del fratello Paolo e della moglie Francesca, scoperti nel tradimento dal quale nasce uno dei più grandi tributi della letteratura di tutti i tempi all’amore. Uno dei più grandi affreschi in versi che l’arte abbia mai dedicato al sentimento, raccontato da Dante nella sua Divina Commedia, nel V canto: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” (verso 103). Un Amore che, anche se riconosciuto sbagliato perché adultero, sopravvivrà per l’eternità. La residenza di Federico, in Urbino, sfoggia al contrario eleganza e bellezze. Oltre agli intrighi e alle sfide in battaglia, il prestigio dei principi rinascimentali si misura anche con lo splendore delle arti nelle loro corti. A Federico da Montefeltro, uomo coltissimo e raffinato, il progetto più ambizioso della sistemazione urbanistica di Urbino, allo scopo di farne cosi la città del principe, e la contemporanea costruzione del Palazzo Ducale. “(…) il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni oportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva (…)”. (Baldassarre Castiglione) Grazie a questa magnificenza che richiama alla memoria l’opera simbolo del Rinascimento italiano, la città ideale, creazione di un artista sconosciuto, la fama di Federico si diffonde in tutta Europa. Con Federico viene dato un impulso enorme all’arte che porterà alla ribalta, nel ducato, talenti quali Bramante e Raffaello. In sfida, l’opera architettonica del suo rivale, Sigismondo signore di Rimini non è un palazzo, ma una chiesa che lui preferisce chiamare “Tempio”. Il Vescovo Francesco Lambiasi in epoca moderna lo definisce: “(…) il volto di Dio che non si presenta come un geloso rivale e invidioso antagonista dell’Uomo, ma come suo potente e misericordioso alleato. È un Dio che ci ha fatti per volare alto, verso di lui, con le due ali della ragione e della fede, come – nella stessa spaziosa aula del duomo – propongono gli emblemi della sapienza greca attraverso le figure mitologiche di sibille, eroi, putti e muse, da una parte, e, dall’altra, le immagini della più genuina visione cristiana: virtù teologali e cardinali, santi, angeli e stelle”. Progettato da Leon Battista Alberti è però rimasto incompiuto. La facciata ricorda gli archi romani e le grandi nicchie avrebbero dovuto raccogliere i sepolcri di Sigismondo e di sua moglie Isotta. Il recupero delle forme classiche è comune nelle opere rinascimentali, ma quello che qui sorprende è l’assoluta mancanza di elementi religiosi. “Sigismondo edificò in Rimini un nobile tempio in onore di san Francesco, ma lo riempì a tal punto di immagini e di simboli dei gentili che sembrò un tempio non di cristiani, ma di infedeli adoratori di demoni, e in esso eresse un sepolcro alla sua concubina elegantissimamente abbellito di artistiche sculture, e vi aggiunse un’iscrizione a mò dei pagani che suonava così: ‘dedicato alla diva Isotta’.” Così il Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, scrive nei suoi Commentari. Un tempio con segni strani ed ambigui, segni zodiacali, amorini, quasi una sfida al Cristianesimo ed al Papa, una sfida che segnerà il suo destino. Gli scontri tra le due famiglie sono continui e sono appesantiti dal fatto che i loro possedimenti sono teatro delle guerre tra Roma, Milano e Venezia per la supremazia nei territori: alle due casate l’ardua decisione di scegliere uno schieramento anziché un altro, per assicurarsi il futuro delle reciproche dinastie. Proprio la Rocca di San Leo, che Dante Alighieri menziona nella sua opera (carcere a vita alla fine del ‘700, per l’avventuriero ed esoterista conte di Cagliostro), è soggetto di una cronaca tra le più affascinanti del Rinascimento. Si trova tra Romagna e Marche, lungo il confine che separa i territori, ed è il luogo di inizio di un duello durato ben 22 anni tra le due casate, senza sosta, con qualche sporadica tregua, spesso non rispettata. Ancora oggi, la storia è fortemente presente nei castelli, nelle rocche e in una delle caratteristiche del territorio della Val Marecchia: i mulini. Gli stessi luoghi diventati i luoghi dell’anima del poeta e sceneggiatore Tonino Guerra. Le antiche strutture utilizzavano la forza dell’acqua, di cui la valle è ricca, per spostare le pesanti ruote atte a muovere le macine. Questi mulini, oggi diventati musei (come il Museo diffuso di Poggio Torriana), sono di un’estrema rilevanza storica, risultato dell’incontro culturale e museale dei territori, esemplari molto ben conservati di un’arte, quella molitoria con le pale ad acqua, in via di estinzione.
E un giorno bisogna che vada in fondo alla fessura della montagna a specchiarmi nel fosso che porta l’acqua al Marecchia; bisogna che metta il naso dentro i mulini abbandonati dove i carbonai con le mani nere spaccavano le pagnotte calde da mangiare col formaggio. Laggiù ci sono le ruote ferme i muri coi chiodi infarinati ma l’aria mossa dalle farfalle avrà l’odore del pane e della vita che non muore mai.
Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore, mio concittadino
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