Si potrebbe asserire che tutto il passato merita di essere approfondito poiché ogni passo ci ha condotto ad oggi, consegnandoci le chiavi per comprendere le sfaccettature del nostro mondo attuale. Durante il viaggio, ospiti della preistoria, quando l’essere umano era parte della natura ed il valore della sua vita era pari al valore del frumento selvatico o dell’animale primitivo, per il primo uomo non esisteva alcun confine tra la specie umana e quella animale o vegetale. Il sentimento radicato ed ancestrale, riconducibile agli antenati, ha da sempre condizionato l’agire umano nei suoi rapporti con l’altro, in epoche durante le quali l’uomo non era ancora al centro dell’universo. In quasi tutte le società primitive la fantasia popolare, stupefatta dall’inanimato, veniva soddisfatta con il riconoscere e prestare fede ad entità soprannaturali, ed in particolare allo spirito del grano.
I MITI CAMBIANO MA LE TRADIZIONI RESTANO; GLI UOMINI CONTINUANO A FARE QUEL CHE I LORO PADRI FECERO PRIMA DI LORO ANCHE SE IL MOTIVO PER CUI I PADRI AGIVANO IN TAL MODO È ORMAI DA TEMPO DIMENTICATO James George Frazer
La spiga, fino alla mietitura, era la dimora, la custodia da cui quello spirito doveva poi fuggire all’arrivo delle falci, trasfigurarsi e successivamente incarnarsi nel mietitore oppure in un animale, uscito spaventato dal suo ultimo nascondiglio. “(…) via via che il grano cade sotto la falce l’animale fugge (…) colui che taglia l’ultimo grano (…) prende il nome dell’animale”. (James George Frazer, Il ramo d’oro) Un rituale del popolo contadino, una usanza rimasta tale fino alla meccanizzazione dell’agricoltura. La mitologia stessa, permeando ogni aspetto e manifestazione della vita reale, palesava tutta la violenza interspecifica della natura. I riti connessi allo spirito del grano e alle altre divinità zoomorfe della vegetazione, usanze di chiara derivazione pagana, giustificavano come, incarnando la divinità, l’uomo e l’animale fossero in parità, ignorando lo specismo dell’uomo civilizzato. Lo spirito del grano riconduce ad Osiride, re dell’antico Egitto e divinità agreste, membro dell’Enneade, il gruppo di nove divinità egizie venerate a Eliopoli. La mitologia egizia racconta la sua uccisione e l’usanza di sacrifici umani spargendo le membra sui campi, per fertilizzarli e cosi favorire l’incarnazione dello spirito del grano. “(…) il dio del grano faceva nascere le spighe dal suo corpo, offriva il suo corpo per nutrire il popolo, moriva affinché la sua gente vivesse”. (James George Frazer, Il ramo d’oro) Per le popolazioni agricole, dove la consuetudine del deicidio era ancora ben radicata, il pasto sacramentale si configurava anche come pasto mistico e con l’uccisione della vittima si intendeva offrire un sacrificio ad una divinità, ucciderla per preservarla dalle brutture della vecchiaia e per ultimo, ma non per questo di minor importanza, uccidere la stessa divinità per assumerne gli straordinari poteri. Uccidere sembra essere, per l’uomo primitivo, una necessità, non tanto per una questione alimentare quanto per un obbligo religioso, inserendosi in una dimensione panica della natura dove l’uomo non si è ancora autoproclamato centro del creato, ma si pone al contrario sullo stesso piano di piante ed animali. Il sacrificio ateniese bouphonia prevedeva che orzo, frumento e focacce di cereali venissero posizionati sull’altare di Zeus Polieus per poi darli in pasto a due buoi, identificando nel primo bue che avrebbe mangiato le offerte l’incarnazione del grano, per poi sacrificarlo in quanto scelto come divino. Allora, con la sua pelle cucita e riempita di paglia, veniva foggiato un simulacro da aggiogare ad un aratro. La caratteristica saliente dei cerimoniali e dei riti è la ferocia, propiziatoria per aumentare i raccolti, spauracchio della carestia e riparatoria per placare gli spiriti e gli dei. Le espressioni popolari rappresentano la tradizione orale, cioè non scritta, che l’archeologo Thomas denominò folklore. “Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose! Chi invece non è stato iniziato ai sacri misteri, chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù.” (Omero, Inno a Demetra)
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