A settembre il fatturato dell’industria alimentare ha registrato un aumento del +18,8% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, identico a quello parallelo del totale industria. I dati di entrambi i perimetri produttivi, con tutta evidenza, sono fortemente drogati dall’effetto costi-prezzi. La riprova è il calcolo dell’aumento in “volume” del fatturato industriale totale effettuato dall’Istat, che indica un assai più contenuto +4,6% sia su settembre 2022/2021, sia sui 9 mesi 2022/2021. Sul fronte dei prezzi al consumo, novembre mostra ancora un’inflazione ai massimi ma stabile, che conferma il tasso tendenziale del +11,8% di ottobre. Al suo interno, tuttavia, emergono alcune differenze. I prezzi dell’alimentare “lavorato”, infatti, rimangono in spinta, segnando un tendenziale del +14,4% su novembre 2021 dopo il +13,3% di ottobre. Il “non lavorato”, invece, rallenta marginalmente, con un +11,3% dopo il +12,9% del tendenziale di ottobre. Non sono buone notizie. Significa che le tensioni sul mercato alimentare e, in particolare, su quello dei prodotti della trasformazione, sono incessanti. Per cui la polarizzazione dei consumi aumenta, mentre per le aziende, con un mercato così avaro, la difesa della qualità, del valore aggiunto e dei margini si fa più ardua.
La sofferenza del perimetro alimentare
D’altra parte, dietro la dinamica dei prezzi al consumo c’è la spinta dei prezzi alla produzione che, non a caso, a ottobre sono arrivati a segnare un tendenziale del +17,1% dopo il +16,4% di settembre. Anche qui si osserva, rispetto al dato generale, una specifica controtendenza negativa dell’alimentare, coerente con gli scostamenti peggiorativi dei trend dei prezzi alimentari al consumo sopra citati. Va detto, infatti, che mentre nel settore alimentare i prezzi alla produzione sono ulteriormente saliti, quelli del totale industria, sulla scorta del rientro dei costi di fornitura dell’energia elettrica, a ottobre sono invece crollati al +28,0% dopo il +41,8% di settembre. È prevedibile che queste tensioni appesantiranno ancora di più le vendite alimentari di fine anno che, sui 9 mesi, avevano messo in campo una forbice vistosa, con un -3,3% in volume e un +4,3% in valuta corrente. In parallelo, il perimetro “non alimentare” aveva registrato variazioni ben diverse, pari al +4,0% in volume e al +5,9% in valuta. Il combinato disposto di queste dinamiche aveva portato il totale delle vendite nazionali di gennaio-settembre al +0,8% in volume e al +5,2% in valuta. Si conferma, quindi, un fenomeno di fondo: il perimetro più sofferente del mercato, per volumi di vendita e prezzi, rimane quello alimentare. E questo significa, tra l’altro, che il riaggancio dei livelli dei consumi alimentari registrati nel 2019, ultimo anno pre-pandemia, invece di avvicinarsi si allontana. Anche perché il “fuori casa”, che nel corso del 2022 si è indubbiamente dinamizzato, non ha recuperato totalmente i livelli di attività del 2019, mentre la ristorazione, nello specifico, non ha ancora adeguato per intero i prezzi rispetto all’aumento dei costi. In sostanza, si può stimare, in maniera prudenziale e forse ottimistica, che i consuntivi finali 2022 delle vendite alimentari complessive si porteranno su un -3,5% in volume e un +5,0% in valore. Per cui, a fine anno la quota dei consumi alimentari globali del Paese potrebbe attestarsi in prossimità, ma ancora sotto la soglia, dei 251 miliardi di euro toccata nel 2019. Quel che è certo, comunque, è che i consumi alimentari in “valuta costante”, cioè quelli reali, in quantità, dopo il -7,5% accusato nel confronto 2021/2019, nel 2022 dovrebbero veder salire al -10% circa il gap rispetto all’ultimo anno “sincero” pre-pandemia. Pertanto, come si accennava, la ricucitura a un trend normale di mercato si allontanerà ulteriormente. In realtà, al di là delle valutazioni congiunturali che ancora affiorano da parte di qualche osservatore superficiale, irretito dai dati valutari drogati dall’inflazione, il mercato alimentare interno 2022 si presenta come un “cavallo scosso”, ben lontano dal rientrare in linea. E questo quando le prospettive stagnanti del PIL 2023 non fanno intravedere spiragli di ripresa a breve.
Le incidenze del valore aggiunto sul fatturato
In tale quadro, la recente disponibilità dei nuovi dati Istat, aggiornati al 2020, in tema di fatturato e valore aggiunto ha consentito di effettuare alcuni confronti sulle dinamiche di queste grandezze riferite ai principali settori manifatturieri. Sono state calcolate, in particolare, le rispettive incidenze del valore aggiunto sul fatturato nel triennio 2018-2020. È inutile dire che si tratta di un indicatore molto importante, rappresentativo della capacità di creare ricchezza. La Tabella mostra tali incidenze. Diciamo subito che queste rilevazioni non appaiono premianti per l’industria alimentare. L’ultimo anno censito dall’Istat, il 2020, è certamente anomalo per effetto della pandemia. Ma questo fenomeno, che ha impattato su tutto l’universo manifatturiero, ha inciso poco sull’industria alimentare, che mostra in proposito situazioni non contingenti ma strutturali. Nel triennio 2018-2020 l’incidenza del valore aggiunto sul fatturato dell’industria alimentare oscilla, infatti, tra il 20,3% e il 20,7%, relegandola stabilmente agli ultimi posti fra i 14 settori considerati. Nel 2020 il comparto computer ed elettronica raggiunge la massima incidenza con il 50,5%, seguito dall’abbigliamento e dalla farmaceutica con incidenze, rispettivamente, del 40,0% e del 37,9%. In tale anno, solo il coke, la metallurgia e i mezzi di trasporto fanno peggio dell’alimentare. In sintesi, il gap dell’alimentare è esplicitato dal confronto con la media manifatturiera, che nel triennio oscilla tra il 26,8% e il 27,7%. Va sottolineato un fenomeno specifico. I dati sopra citati riguardano l’intero mondo produttivo dei comparti analizzati.
L’indagine di Mediobanca
In autunno è uscita un’indagine di Mediobanca sui bilanci delle aziende medio-grandi del Paese (tutte quelle oltre i 500 addetti e un quinto di quelle tra 20 e 500 addetti), che si spinge fino al 2021 e fa emergere, con riferimento al triennio omogeneo 2018-2020, incidenze valore aggiunto/fatturato tra il 16,3% e il 17,4% per il campione alimentare e tra il 19,6% e il 21,1% per quello manifatturiero. Fra i quattro comparti alimentari analizzati da Mediobanca (bevande alcoliche e analcoliche, caseario, conserviero e dolciario), solo il dolciario riesce ad agganciare incidenze valore aggiunto/fatturato stabilmente superiori a quelle espresse dalla media manifatturiera. È troppo poco. Non c’è quindi da meravigliarsi se, in omaggio al principio che il valore aggiunto fa capienza per l’utile, sul passo lungo, ovvero sull’arco del decennio 2012-2021, l’indagine Mediobanca evidenzia che i “margini netti” del campione alimentare crescono solo del +15,3% a fronte del +84,9% del campione complessivo. In ogni caso, il confronto tra i dati di Mediobanca e quelli dell’Istat evidenzia due fenomeni. Il primo riguarda la conferma, anche se con una forbice inferiore, del gap delle incidenze valore aggiunto/fatturato dell’alimentare rispetto al campione manifatturiero. Il secondo è rappresentato dal fatto che nel campione Mediobanca sia l’alimentare sia il perimetro manifatturiero complessivo mostrano incidenze valore aggiunto/fatturato in assoluto più basse di quelle espresse dall’universo Istat. Si può quindi dedurre che a “tirare su” queste ultime sia la fascia delle piccole aziende sotto i 20 addetti e quell’80% delle PMI fra 20 e 500 addetti escluse dall’indagine di Mediobanca, che appare quindi più performante a dispetto della sua minore, pretesa competitività e della sua residua, ridotta proiezione internazionale rispetto a quella delle grandi aziende. Probabilmente ciò è in gran parte legato alla sua elasticità strutturale e alla maggiore vicinanza alle tradizioni produttive dei territori, che le permettono di giocarsi la partita mettendo in campo, fra l’altro, livelli premianti proprio in tema di valore aggiunto.
Responsabile Ufficio Studi, Mercato e Ufficio Stampa di Federalimentare
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